Dina Lauricella
IL CODICE DEL DISONORE
Conversazione/Presentazione con la giornalista Dina Lauricella,
autrice de “Il codice del disonore: donne che fanno tremare la ‘Ndrangheta” (Einaudi, 2019)
Questo libro nasce da un fenomeno recente di grande importanza: per la prima volta nella storia della ‘Ndrangheta le figlie e le mogli dei boss collaborano con la giustizia denunciando le loro famiglie. Lo fanno per strappare i propri figli a un ineluttabile destino criminale, ma soprattutto per sfuggire loro stesse al “codice d’onore”. Si tratta delle linee guida dei membri della mafia calabrese che si definiscono, a loro volta, uomini d’onore. Direttive che servono a far carriera nel crimine, tramandate per via orale e che negli ultimi decenni hanno trovato conferme scritte o sono state riferite agli inquirenti dai collaboratori di giustizia. Un esempio è la vendetta che incombe sulle donne di ‘Ndrangheta che tradiscono il marito o la famiglia: la morte. Un rito feroce di cui i padri devono farsi garanti per rimediare “all’onta” subita, in nome di ciò che emancipazione, cultura e buonsenso definirebbero piú come “codice del disonore”.
IL LIBRO di Dina Lauricella, “Il codice del disonore (Einaudi, pp. 184, euro 17), frutto di un’inchiesta giornalistica tra le donne della ‘ndrangheta calabrese che hanno collaborato con la giustizia, si connota per la sua originalità rispetto agli approcci prevalenti. Senza alcuna pretesa di proporre uno studio sociologico, l’autrice sembra muoversi secondo i dettami foucaultiani di un’analisi microfisica delle relazioni di potere, condotta nello specifico tra gli interstizi dei rapporti tra i sessi.
Della ‘ndrangheta calabrese si dice che sia l’organizzazione criminale più potente del mondo, che si mimetizzi abilmente tra le pieghe della società ufficiale, che inglobi nel suo universo arcaico le sfide della società contemporanea. Soprattutto, si dice che sia compatta e impenetrabile. Lauricella scardina le visioni dominanti, scavando nella quotidianità della criminalità organizzata calabrese. Gli ‘ndranghetisti si propongono come portatori di valori immutabili nel tempo, fondati sulla consanguineità e l’onore, in grado di resistere alle sfide esterne.
In un contesto simile, le donne occupano una posizione svantaggiata: intrappolate all’interno di un denso reticolo relazionale-funzionale, dove i matrimoni servono a rinsaldare le alleanze tra ‘ndrine o a suggellare una pace, le donne possono solo accettare e trasmettere alle loro figlie la sottomissione. Da questo contesto, l’individualità è bandita: nessuna aspirazione diversa dalle aspettative familiari è possibile, nemmeno per i maschi, che debbono conformarsi ai codici di sangue e vendetta che ne preparano l’ascesa criminale. Eppure, all’interno della ‘ndrangheta i rapporti interpersonali non scorrono senza produrre conflitti e risentimenti.
Le donne, in quanto depositarie dei codici culturali e principali educatrici dei figli, negli ultimi anni hanno rappresentato il nervo scoperto della violenza ‘ndranghetista. Costrette ai matrimoni combinati, abusate sessualmente dai parenti col tacito consenso (o con la paura) di madri, nonne e zie, imbevute di una cultura della sopraffazione che dà per scontato che debbano andare in spose ai fratelli dei mariti uccisi, le donne di ‘ndrangheta cominciano a cercare una via d’uscita.
e nuove generazioni, viceversa, possono avvalersi di due canali per rivalersi della loro dignità violata: uno è quello del programma di protezione dei collaboratori di giustizia, attraverso il quale possono chiamare le loro famiglie a rendere conto della loro responsabilità. La collaborazione, tuttavia, si rivela un percorso impervio, in quanto costituisce una scelta individuale, solitaria, che spesso scatena l’ostilità dei figli stessi, strappati dal contesto originario, e favorisce i ricatti morali delle famiglie d’origine, che ottengono spesso il risultato di far ritrattare le dichiarazioni e attuare ritorsioni che spaziano dalla segregazione all’omicidio. Altre volte, come il caso di Alba A., che chiede all’autrice 100mila euro per un’intervista, più che di una vera e propria scelta di vita, si tratta del tentativo di tirarsi fuori da situazioni pericolose senza abiurare al proprio sistema valoriale. Il secondo canale di fuga è quello della tecnologia.
Molte donne di ‘ndrangheta usano i social network per esplorare un mondo che non gli è permesso conoscere. Spesso ne consegue la conoscenza di uomini esterni al loro universo criminale, i quali, sebbene virtuali, assecondano la loro voglia di venire fuori dal contesto sanguinario in cui sono cresciute, e le spingono a opporsi apertamente ai diktat ‘ndranghetisti, anche a costo della vita.
È il contatto con l’esterno, con altri mondi, che le donne necessitano. La combinazione tra femminilità, individualità e tecnologia, sembra suggerire l’autrice, può mettere in crisi la ‘ndrangheta più di migliaia di blitz e processi. Si tratta di non lasciarle sole, di creare appigli duraturi, di aprire percorsi di emancipazione dai valori mafiosi. Una strada impervia, ma che esiste, e va esplorata.
Dina Lauricella, palermitana, vive a Roma. Ha collaborato con «La Repubblica», «L’Espresso», «Il Fatto Quotidiano» e Radio Capital. Arriva in Rai nel 2003 e dal 2007 firma diversi speciali per Michele Santoro, fra cui: Inferno Atomico, premio della critica Ilaria Alpi; Cosa vostra, dove intervista per la prima volta in tv il figlio di Provenzano e Stato criminale, che trae spunto dal libro di cui è autrice con Rosalba Di Gregorio, Dalla parte sbagliata. La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di Via D’Amelio (Castelvecchi 2014, 2018), premio Marco Nozza per il giornalismo d’inchiesta. Nel 2014 vince il premio nazionale Paolo Borsellino (Targa del Presidente della Repubblica) per il giornalismo. Oggi collabora con Rai3.
“Dare senso”! “Dare senso” come un’urgenza, un bisogno, ineluttabile, da soddisfare! Un libro intorno al quale pensare un appuntamento che non sia solo uno dei tanti… E non potrebbe proprio, in questo caso… Un appuntamento che abbia il senso di trasmissione di memoria, impegno civile, rigore, speranza per un futuro diverso da scrivere. Sono grato, come non capita di sovente, nell’aver avuto la voglia, la curiosità, l’occasione di imbattermi ne “Il codice del disonore: Donne che fanno tremare la ‘Ndrangheta” di Dina Lauricella e nel pensare di portarlo in qualche modo a teatro a Vigevano. Oltre all’importanza incredibile che questo volume ha nella cronaca del nostro paese, credetemi, è scritto da Dio!!! Ti ci tuffi dentro e ti sembra di essere dentro ad un libro a metà tra Garcia Marquez e Philip Roth per quella capacità narrativa che attraversa storie, famiglie, spaccati sociali, per raccontare altro… per raccontare un tempo, una contemporaneità, vizi e drammi privati che diventano inesorabilmente pubblici. Una scrittura meravigliosa! Qui si raccontano storie di donne… donne maltrattate, abusate, dimenticate… donne segregate dai pregiudizi e dai retaggi culturali… e si raccontano donne coraggiose, a cui, probabilmente, tutti noi dobbiamo la speranza di una “possibilità” per un futuro diverso da un presente carico di barbarie e violenza. E siamo davvero onorati di portare questo libro al Teatro Moderno di Vigevano a ridosso del 25 Novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne!
Leggere “Il codice del disonore” di Dina Lauricella, è come calarsi all’interno della narrazione di una tragedia greca. Gli ingredienti sono gli stessi, il pathos è lo stesso, la fine epica e “aperta”, è la stessa… Amore, Onore, Morte, Destino, Menzogna, Tradimento, Ineluttabilità, Eroismo… questi gli elementi in comune a due mondi che fanno da sfondo alle vicende… due mondi distinti, separati, ciascuno con proprie leggi… due mondi, quello degli uomini e quello degli dei per quanto riguarda la Tragedia… quello della “tradizione” che imprigiona e quello della “libertà” così faticosa da raggiungere, quello della ‘Ndrangheta qui narrata. Due mondi che si scontrano nelle scelte di donne coraggiose che rappresentano l’origine di una “rivoluzione possibile” contro la criminalità, la violenza, la sopraffazione, il giogo del maschilismo. Alla fine del viaggio in questo libro, mi sono rimbalzate alla mente le parole “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare!”… e in questo caso, forse, l’affermazione manzoniana, mai fu più inadeguata! Il Coraggio non è “innato”, “strutturale”, “scontato”… è frutto di un lungo lavoro culturale sulle generazioni… lavoro che deve poter scardinare falsi valori, una struttura sociale arcaica fondata sulla paura, un potere di vita e di morte affidato ad un “pater familias” che non sa il significato dell’Amore, unico vero è degno collante di ogni relazione affettiva, familiare, sociale! Ed è proprio con il riappropriarsi di questo elemento, l’Amore, che risiede la speranza in un futuro migliore… migliore per tutte le donne protagoniste di queste vicende… migliore per tutti gli uomini carnefici e vittime allo stesso tempo di una cultura di morte… migliore per tutti quei figli deprivati di infanzia, sogni, speranze… e migliore per tutti noi!