Edoardo Maffeo
presenta
UTOPICHE CUCITURE
mostra personale di
LUIGI DELLATORRE
“Consentitemi di tessere un breve elogio delle cuciture. Non importa quale modello di cucitura: l’atto stesso del cucire, che è da sempre il cuore e l’ossatura della sartoria così come il disegno lo è per la pittura, ha un che di rituale, di ancestrale. Quando vedo, anzi quando sento una cucitura, seppur invisibile, nascosta, perfettamente mimetizzata nella rete del tessuto, vuoi su un pantalone o su una camicia; ecco, io sento come un’aria antica solleticarmi la pelle, un remoto richiamo ad un tempo in cui il gesto stesso del cucire aveva un che di rituale, di magico, di religioso. Il cucire è un atto che richiede pazienza, cura, attenzione; è meticolosità, intuito, ascolto: si ascolta il tessuto, se ne sonda la trama, la forma. Il cucire tiene insieme, lega, crea relazioni articolate e complesse tra le forme: è inclusivo, non esclusivo. Nella lavorazione, la cucitura ha una suo ruolo sottile, segreto, iniziatico, di struttura che tiene legato a sé il tutto. Ogni essere umano è un tessitore sospeso di relazioni e reazioni: dipende dalla quantità e qualità di quel filo (volontà) che egli stesso produce e cerca di governare. Nonostante la filosofia, la religione e la scienza, la vita di ciascuno è un tessuto complesso, di cui solo in parte riusciamo a comprendere e a padroneggiare le trame. Anche se sfugge quel fil rouge che lega eventi, incontri ed esperienze, e sfugge pure il grande disegno di cui siamo parte, se “uniamo i puntini”, l’immagine che ne uscirà potrebbe stupirci. Quello che chiamiamo “io”, in fondo, non è che un vestito di Arlecchino fatto con tante identità e cucito (talora anche rabberciato) con i colori diversi delle nostre storie. E poco cambia se generalizziamo il concetto a realtà più complesse come “società” e “umanità”; le tessere si legano e ricompongono armonicamente sempre con ago e filo: cucire, ricamare, unire.
Come il significato fondamentale del mito è quello di mettere ordine nelle cose per uscire dal caos, così i legami non necessariamente limitano e costringono, ma, tracciando i confini, offrono ordine, misura e senso; segnano una via, rappresentano un appiglio, un approdo, forse… Per non farci perdere la rotta. Una rete che non è trappola ma che impedisce la caduta. Il filo, insomma, anche quando invisibile o con un percorso zigzagante, è un limite infinitamente aperto.
E sono proprio queste le metafore che Luigi Dellatorre, artista capace come pochi di anteporre il messaggio al mezzo espressivo, a mio avviso usa per riflettere sulle inquietudini e sulle drammatiche emergenze dei nostri tempi, rammentando ad ognuno l’ineluttabile urgenza di assumere, come individui, iniziative etiche responsabili e agire virtuosi comportamenti collettivi volti al bene ed al benessere comune. Una sollecitazione forte a combattere, insieme, solidali ed uniti, contro le iniquità e le ingiustizie, contro chi mina la pace, contro chi distrugge il pianeta.
Che poi l’artista sia ben cosciente di come la sua proposta per una corale ed immediata risposta alle pressanti denuncie rischi di trasformarsi in un sogno destinato ad infrangersi contro gli scogli dell’indifferenza o dell’irresponsabilità, mi pare manifesto sin dalla prima parte del titolo scelto per la mostra. D’altronde, come scriveva Eduardo Galeano, raffinato intellettuale uruguagio della seconda metà del ‘900: “l’utopia è come l’orizzonte: cammino due passi, e si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e si allontana di dieci passi. L’orizzonte è irraggiungibile. E allora, a cosa serve l’utopia? A questo: serve per continuare a camminare.”
Ecco allora materializzarsi le rappresentazioni del progetto “Cucire il mondo”: improbabili cartografie del globo e di continenti fantastici alla deriva, dove la grossolana tela di jeans, ricucita minuziosamente ed a tratti ridipinta, perde ogni connotato della sua identità d’origine per portare alla luce la secolare verità della pittura e della materia che si coniuga con il gesto del creare e le sue antiche malie bi e tridimensionali. Nella concentrazione di colore, di materiali e processi pittorici l’opera si trasforma in spazio intellettuale colmo di riferimenti e denuncie. Con una consistenza fisica, vissuta, carnale, con una materia che, come il pensiero ed i comportamenti, si lascia, non senza fatica, suturare e ricomporre.
Nasce così un dialogo con la sostanza costitutiva dell’opera in cui è essenziale la dimensione simbolica della sua trasformazione e rigenerazione che ci accompagna verso un’altra ed inedita dimensione del vedere. LuigiDellatorre dipinge, certo, ma non solo. Il suo lavoro non è assemblaggio e non è installazione: la tela povera e greve, le cuciture, il colore e gli inserti sono manifestazione di una tenace capacità di tradurre, con la forza originaria della materia, il flusso dei pensieri e la garbata urgenza creativa che la manipola.
È arte fatta con le cicatrici della realtà, arte che emerge senza alcuna allusione mimetica, per lasciarsi indagare ed esplorare poeticamente nella rappresentazione di quel gran teatro della contemporaneità che, ora come mai, ci obbliga ad assistere a probabili imminenti tragedie.” (Edoardo Maffeo)
“Luigi Dellatorre è nato a Cassolnovo (PV) il 16-11-1953. Ha iniziato l’attività artistica seguendo due passioni: l’arte – il primo quadro è del 1973 – e il teatro: nel 1976 ha recitato in Finale di partita di Samuel Beckett il ruolo di Hamm, il personaggio principale della pièce.