Le origini della Diocesi di Vigevano
Il 16 marzo 1530, con bolla “Pro excellentissimae sedis apostolicae”, il papa Clemente VII istituì la Diocesi di Vigevano ; questa istituzione non nacque tanto per effettive necessità pastorali o per l’importanza civile e religiosa della città, quanto per sollecitazione del duca Francesco II Sforza. Il Duca aveva, infatti, richiesto al Papa l’elevazione a diocesi del territorio di Vigevano, in ossequio alla volontà del padre Ludovico il Moro, a cui non era stato possibile realizzare questo obiettivo per le sopraggiunte traversie politiche e militari.
Il primo vescovo di Vigevano fu Galeazzo Pietra, amico e consigliere del Duca Francesco, il quale aveva anche ottenuto dal Papa il privilegio di poter nominare personalmente i vescovi alla cattedra vigevanese. La nuova diocesi era composta solo da tre parrocchie cittadine: s. Ambrogio ovvero la nuova cattedrale, s. Cristoforo, attuale san Pietro Martire, san Dionigi con s. Gaudenzio a Gambolò e sant’Albino a Mortasa; nel 1535 fu aggiunta l’Abbazia di Acqualunga, di cui il Vescovo di Vigevano ha il titolo di Abate ancora oggi.
Sulla volta della scalinata che porta alle sale del Vescovado e alla cappella privata, sono ricordati i nomi dei promotori della diocesi : il papa Clemente VII, l’imperatore Carlo V ( per il quale a tutt’oggi viene celebrata una messa il 3 novembre) e Francesco II Sforza. Su una vetrata della cappella, invece, sono ricordate le tre parrocchie iniziali.
Il Palazzo
Istituita la Diocesi, si dovette provvedere, dunque, alla costruzione di una degna sede vescovile : per la costruzione del palazzo il duca concesse come patrimonio immobiliare alcune case vicine alla chiesa cattedrale e il giardino fuori porta Bergonzone ( oggi via Buozzi) lungo il naviglio.
Il 6 dicembre del 1531 il primo vescovo di Vigevano, Galeazzo Pietra, entrò ufficialmente in città e l’anno dopo iniziò i lavori di trasformazione e di ampliamento di alcuni edifici già esistenti e di costruzione di nuovi corpi di fabbrica, creando una sede vescovile che, negli anni, fu progressivamente ampliata ; un primo ampliamento fu effettuato dal vescovo Andrea Casale negli ultimi decenni del XVI secolo : venne aggiunto un maestoso scalone d’onore e fu realizzato all’interno un grande giardino . Un successivo intervento fu fatto dal vescovo Juan Caramuel , grazie al quale la sede vescovile fu dotata di ampi saloni di rappresentanza, ed ebbero una radicale sistemazione i locali che compongono l’appartamento privato del Vescovo e la cappella privata al primo piano.
La facciata esterna del palazzo, che si affaccia su Piazza s. Ambrogio, non presenta elementi architettonici di particolare rilievo. Del lungo edificio solo una parte è ornata da finestre signorili e il portone con la balconata non è in posizione centrale rispetto al corpo di fabbrica.
Ai lati del portone si possono vedere due lapidi commemorative: una ricorda il soggiorno del Re di Sardegna Carlo Alberto che, nell’agosto del 1848, firmò qui l’armistizio di Salasco; questa lapide fu posta dalla sezione vigevanese dell’Associazione Combattenti e Reduci nel 1961, in occasione del centenario dell’unità d’Italia. L’altra , collocata più di recente, ricorda la visita di Papa Benedetto XVI a Vigevano nell’aprile del 2007.
Superato il portone, si entra in un cortile delimitato a sinistra da un porticato e a destra dalla parte esterna del coro del Duomo.
Dal porticato si accede allo scalone d’onore, di recente restaurato. Prima di salire, si può notare una lapide dedicata “al Divo Napoleone” e fatta apporre da mons. Gambone, per breve tempo vescovo di Vigevano e successivamente divenuto consigliere di Eugenio Beauarnais e patriarca di Venezia.
Lo scalone è coperto da una volta a botte decorata con un affresco di artista anonimo della fine del XVI secolo: questo affresco celebra la visita dell’imperatore Carlo V il 14 marzo del 1533, e lo raffigura a capo scoperto, rivestito dell’armatura e attorniato da due angeli che reggono rispettivamente una colonna e una croce legate da un serto; questi sono i simboli della civiltà e della fede cristiana che l’impero diffondeva nel mondo con le sue conquiste e che costituivano la base e la giustificazione del potere imperiale.
L’elogio nei confronti di Carlo V non deve sorprendere perché conseguenza dei numerosi benefici che l’imperatore concesse al Vescovado e al Capitolo della cattedrale.
Sulle lunette laterali sono inscritti nomi di Vescovi, mentre sulle pareti sono raffigurate le mappe della diocesi rispettivamente nel 1532 e nel 1817.
La ringhiera, di pregevole fattura e di linea composita, risale alla prima metà del Settecento e fu commissionata dal vescovo Giorgio Cattaneo, di cui è riprodotto lo stemma.
Gli appartamenti di rappresentanza
Dal vano scala si accede alla cappella privata, a navata unica, coperta da una volta a botte, decorata al centro da un dipinto raffigurante angeli : è opera di un artista sconosciuto, databile intorno al 1770 e fu voluta dal vescovo mons. Scarampi. Sopra l’altare, in stile barocco, si trova un dipinto del 1767 che raffigura la Vergine Addolorata; a lato si nota un Cristo deposto, realizzato in terracotta dipinta e risalente anch’esso al XVIII secolo.
Si prosegue poi per la sala delle udienze, che contiene mobili d’epoca e una serie di quadri notevoli tra i quali spicca san Dionigi di Giovan Battista Crespi detto il Cerano, che riprende lo stesso soggetto della pala, più complessa e artisticamente importante, che si trova nella chiesa di s. Dionigi.
Probabilmente questo quadro fu commissionato all’artista, alla fine del XVI secolo, a seguito della scissione avvenuta all’interno della Confraternita di s. Dionigi, parte della quale si trasferì a s. Maria del Popolo , ma volle una propria immagine del santo. Adiacente alla sala si apre il cosiddetto “Salottino rosso” dove si può ammirare una Cena Domini di Bernardino Gatti, detto il Sojaro che, su commissione di Francesco II Sforza, lavorò a Vigevano, a partire dal 1534, nella costruzione della nuova cattedrale. Il pittore, di origine pavese, fu un protagonista del manierismo nell’Italia settentrionale, coniugando, con singolare maestria stilistica, i modi di Correggio, Pordenone e Giulio Romano, filtrati attraverso il classicismo di Bernardino Luini. Una copia di questa Cena, eseguita dal pittore vigevanese Giovanni Battista Garberini alla fine dell’Ottocento, si trova nella sacrestia maggiore del Duomo.
Sullo stesso piano si trova la “sala dell’Armistizio”, dove il 10 agosto 1848 fu ratificato dal re Carlo Alberto di Sardegna l’armistizio di Salasco, come ricorda la scritta sullla già citata lapide posta della facciata: ”In questo Palazzo Vescovile Carlo Alberto, accolto con lo Stato Maggiore dell’armata piemontese da Mons. Pio Vincenzo Forzani, ratificò il 10 agosto 1848 l’armistizio di Salasco dal quale maturarono propositi ed eventi per l’unità d’Italia.”
Per la sua opera di mediazione e la sua ospitalità il vescovo mons. Forzani fu insignito da Carlo Alberto dell’Ordine Mauriziano, una delle massime onorificenze concesse dai sovrani sabaudi; nella quadreria dell’ospedale esiste tuttora un ritratto di anonimo lombardo che raffigura il vescovo con le decorazioni dell’Ordine, di cui andava molto fiero.
L’armistizio di Salasco.
L’armistizio, venne firmato a Vigevano nel Palazzo Vescovile il 9 agosto 1848, dal generale piemontese Carlo Carnera di Salasco e dal generale austriaco Von Hess. Questo armistizio pose fine alla prima fase della prima guerra d’ indipendenza con le seguenti condizioni : il Regno di Sardegna rinunciava ad ogni pretesa su Milano e la Lombardia, l’Austria rientrava nei suoi possedimenti italiani stabiliti nel 1815 dal Congresso di Vienna (Lombardia e Veneto) e restaurava sui loro troni i sovrani di Parma e Modena, fuggiti allo scoppio della guerra.
Solo pochi mesi prima il panorama politico presentava tutt’altra fisionomia : dal 18 al 22 marzo, le gloriose 5 giornate di Milano avevano liberato la città dagli Austriaci e subito dopo Carlo Alberto aveva dichiarato guerra all’Austria e varcato con le sue truppe il Ticino. Le prime battaglie furono favorevoli all’esercito sabaudo, che, dopo la vittoria a Goito, riuscì ad occupare tutta la Lombardia e a determinare la resa della fortezza di Peschiera, parte del Quadrilatero, importante linea difensiva austriaca tra Lombardia e Veneto. I Piemontesi, però, non seppero sfruttare i successi ottenuti e, in più, le truppe del maresciallo Radetzky si erano notevolmente rafforzate con l’arrivo di un corpo d’armata dal Tirolo. Ciò permise di ribaltare le sorti della guerra e la decisiva battaglia di Custoza vide l’esercito piemontese sconfitto e costretto alla ritirata; dopo aver perso anche Milano, Carlo Alberto si risolse a chiedere un armistizio.
Poiché a Milano il ritorno degli Austriaci aveva suscitato focolai di sommossa, anche contro il re piemontese da cui i milanesi si sentivano traditi, Carlo Alberto, dopo una prima formale accettazione della condizioni imposte da Radetzky, ottenne di ritirarsi oltre il Ticino e a mezzogiorno del 6 agosto raggiunse Vigevano, allora la prima città del Regno di Sardegna oltre il confine del fiume; il re, febbricitante e visibilmente prostrato, venne accolto dal vescovo Forzani e alloggiato nel Palazzo Vescovile, mentre il suo Stato Maggiore veniva alloggiato a Palazzo Testanera ( nell’odierno Corso Vittorio Emanuele, dove oggi ha sede l’Associazione Commercianti).
Carlo Alberto, nella sede vescovile, ricevette una delegazione di milanesi venuti a scusarsi per le manifestazioni ostili nei suoi confronti, e una di pescatori vigevanesi che recavano in dono dei pesci. La cronaca riferisce che in quell’occasione al re fu necessario un interprete, perché il dialetto vigevanese gli era incomprensibile , in quanto, oltre all’italiano e al francese, parlava solo il dialetto torinese.
Il 9 agosto Salasco e Von Hess sottoscrissero a Palazzo Testanera gli atti finali dell’armistizio, non particolarmente gravoso perché in cambio della salvezza integrale del suo esercito e del riconoscimento del precedente confine del Ticino, Carlo Alberto cedeva le città e i territori precedentemente occupati ma ormai indifendibili per lui e non doveva pagare nessuna indennità di guerra, né revocare la costituzione.
Il giorno dopo il re firmò, nella sala di Palazzo Vescovile, la ratifica dell’armistizio e l’11 agosto lasciò Vigevano per ritornare a Torino. Così commentò la ratifica : Una tregua di sei settimane fu stabilita per ora col nemico; e avremo nell’intervallo condizioni onorate di pace o ritorneremo un’altra volta a combattere. Dopo sette mesi, nel marzo 1849, egli denuncerà effettivamente e unilateralmente l’armistizio, riprendendo una guerra che porterà, con la sconfitta di Novara, al sacrificio dell’esercito piemontese e del suo stesso trono ( per non parlare della difficile condizione in cui la sua abdicazione lasciò il figlio Vittorio Emanuele II).